IL Rito del Pane Pasquale

 

Un’antica leggenda narra che in un tempo assai remoto la Sardegna era abitata da piccole fate le “janas”. Le “janas” erano creature magiche e misteriose detentrici di scienza e sapere la cui dimora consisteva in una grotticella artificiale di pietra. Un giorno queste creature decisero di sviare i passi di una giovane donna e di condurla così presso le loro grotticelle. Il loro intento era amichevole: volevano insegnarle i segreti della panificazione e donarle una ”matrice miracolosa” che nascosta nella farina e mischiata con dell’acqua avrebbe aumentato il volume dell’impasto. Così nel segreto della grotticella, nell’utero della terra, da elementi magici come acqua purissima di sorgente, terra (grano dorato), aria (incorporata con il lievito) e fuoco sarebbe nato l’ alimento perfetto: il Pane.

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La donna apprese la ritualità, si sentì responsabile depositaria del segreto delle fate e custode della preziosa matrice che tutto moltiplica e tutto trasforma. Le fate le dissero che quel lievito madre avrebbe dovuto essere tramandato di generazione in generazione e “rinnovato” ad ogni impasto. Così da allora le donne depositarie di questo segreto, della matrice e del rito rinnovano giorno dopo giorno quest’arte panificatoria. La leggenda non sarà mai niente di più che una fiaba ciò che risponde a verità è invece la dimensione magico-religiosa che riveste in Sardegna un alimento come il pane che non è mai stato solo un semplice alimento.

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Il pane, infatti, è stato semantizzato di contenuti culturali. È rito, mito, leggenda! È incrocio di sacro e profano! Nel mediterraneo le civiltà cerealicole primitive sostituiscono al sacrificio umano e di animali il sacrificio del pane. Il pane viene, dunque, offerto alle divinità che  propiziano il raccolto. Gli antichi coltivatori, infatti, temevano più di tutto il resto la siccità e le malattie e parassitosi delle piante.

La Storia ci insegna che furono gli Egizi a fare il pane per la prima volta e che anche presso di loro il pane era alimento Sacro e prezioso poiché lo confezionavano in forma conica o piramidale per offrirlo al tempio. Erodoto, il noto storico greco ci riporta, inoltre, che in ogni casa egizia vi fosse l’impasto inacidito ovvero il lievito madre e questo fosse visto come un ingrediente magico capace di trasformare l’impasto.

Anche gli Ebrei conoscono il pane e hanno anche fra le loro varietà una focaccina lievitata ma prediligono consumarlo azzimo perché è il pane del viaggio.

Agli azimi si legano rituali del giorno della pasqua ebraica in cui il capofamiglia raccontando il passaggio di Mosè nel mar rosso amministra e spezza gli azzimi.

Anch’essi lo offrono al Signore al tempio nella misura di 12 focacce sostituendolo ai sacrifici umani e animali di biblica memoria, come quello di Abramo nei confronti del proprio figlio Isacco prima che Dio gli fermasse la mano.

I romani “pianteranno” dei pani nel terreno per fecondare la terra e apriranno i primi panifici.

In Sardegna le cose non vanno diversamente, il pane è ancora alimento sacro e importante e ciò è testimoniato dai numerosi ritrovamenti archeologici come: pintaderas, rozzi silos per i cereali, pestelli di pietra,  bronzetti raffiguranti offerenti di pane.

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Il pane è sempre stato, alimento imprescindibile, base della nostra alimentazione e cosiddetto pane quotidiano e ciò a maggior ragione quando la Sardegna diviene granaio di Roma e d’Italia.

La coltivazione del grano nelle civiltà cerealicole che basavano il proprio sostentamento sui cereali  era, inoltre, rivestita di sacralità e  portava con se riti di propiziazione degli Dei.

In periodo pagano il pane rituale veniva confezionato per propiziare il raccolto nel periodo del solstizio estivo che arrivava a conclusione del ciclo agrario iniziato col solstizio invernale.

Nel giorno del solstizio invernale , alcuni chicchi di grano andavano a morire nella buia terra, illuminati da un debole astro solare ma durante il solstizio estivo quando il sole raggiungeva il suo massimo potere illuminante il grano biondeggiava nei campi ma già intravedeva la morte per mano del contadino e della sua falce. Così in un ciclo continuo di vita, morte e rinascita ciò che rimaneva imperituro era lo spirito del grano. L’uomo faceva così esperienza di passione, morte e rinascita.

La Sardegna fu, dunque, teatro di una vera e propria religione agraria che vedeva nell’usanza del covone rituale la sua massima espressione.

Il covone rituale era il primo o l’ultimo covone mietuto in cui si sostanziava la divinità del grano e il racconto della sua “ passione” che subisce violenza e muore per mano del contadino per poi rinascere nella stagione successiva.

Per rimediare all’offesa e al male arrecato alla divinità madre terra e al grano stesso  e per propiziare una nuova stagione agraria favorevole e non siccitosa ed evitare malattie e parassitosi del grano veniva recitata una preghiera tramandata di generazione in generazione.

La divinità del grano venne così personificata nelle figura di alcune divinità come, ad esempio, Demetra o Persefone in Grecia, Adone e Afrodite in Siria, Tammuz Cibele in Babilonia e Iside o Osiride in Egitto.

Da noi questa usanza è arrivata ancora prima dei Romani con i fenici e i greci ed ha avuto un grande successo poiché il nostro sostrato culturale aveva già il culto della Dea Madre che conosceva il ciclo di nascita, morte e rinascita.

Il grano del primo covone verrà tenuto in casa con la  funzione di scacciare il malocchio, riseminato, usato per sa mixina antiga e sparso sui morti per propiziarne la rinascita, posto negli armadi per salvaguardare i possedimenti familiari.

Il pane rituale veniva forgiato in forme apotropaiche e in venerazione di astri celesti e divinità terrene.

Ad esempio, a forma di triangolo per la dea triangolo, a forma di mezzaluna, a forma di cuore oppure evocando pitture rupestri: cerchio, spirale, rombo, clessidra.

Il pane giornaliero invece evocava in genere immagini di fertilità come vegetazione, grano e fecondità.

Per gli antichi arte, lavoro, religione e panificazione erano una cosa sola. Infatti i laboratori di pane, tessitura e ceramica sorgevano a ridosso del tempio.

In periodo cristiano il pane è poi diventato corpo di Cristo con la transustanziazione ed è divenuto pane pasquale, pane quaresimale, pane delle comunioni, pane del santo durante il novenario, pane dei morti, pane degli sposi, pane del battesimo, pane del patrono.

Vi sarà però comunque un continuum con le feste e le usanze pagane e le festività Cristiane in quanto alcuni dei riti pagani e la stessa simbologia e motivi ornamentali dei pani rituali verranno semantizzati di nuovi significati Cristiani, espressione di ciò che il vangelo asserisce ove recita che:“ Cristo fa nuove tutte le cose”.

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Durante i riti della settimana Santa il pane verrà così  portato anche nel sepolcro per identificare il ciclo del grano con il rito di nascita, morte e resurrezione in Cristo che Gesù stesso conosceva quando diceva che il chicco deve morire per dare frutto come l’uomo deve morire a se stesso per avere la vita eterna.

Il ventinove di giugno , giorno sacro per la mietitura diventa il giorno di San Pietro in occasione del quale con le spighe del covone viene confezionata una croce, oppure un mazzo di spighe da inserire in un pane rituale a forma di croce o ancora, una croce di stoppie o un mazzo di spighe plasmato con la pasta del pane.

Dalle spighe offerte col covone rituale ai santi, inoltre, il Sacerdote ricaverà la farina per le ostie in osservanza della prescrizione di Dio a Mosè tramandata agli israeliti: Offrirete un covone a Dio per mezzo del sacerdote.

Un altro covone verrà invece appeso in casa con funzione apotropaica e sarà il covone di San Giovanni.

Il pane a forma di triangolo dedicato alla dea diverrà sa pippia e caresima formata da una testolina e due triangoli sovrapposti per il corpo con sette gambe, una per ogni settimana di quaresima e nel marghine rimarrà anche la tradizione del pane a forma di triangolo.

Ogni paese in Sardegna veniva contraddistinto più nel passato che nel presente dal profumo del suo pane.

Il pane é patrimonio di famiglia e delle genti. Segna miseria e nobiltà. Se bianco è consumo ostentativo di una posizione sociale agiata se nero o finanche di ghianda rappresenta povertà e molto spesso tutto ciò che la famiglia possiede.  Nei paesi della Sardegna vi è una forma di rispetto per il pane: il pane non si taglia col coltello bensì si spezza con le mani, non si mette capovolto sul tavolo perché rappresenta i valori della comunità e della famiglia e si ha la credenza che capovolgendolo si muti in negativo l’ordine delle cose.

Se  il pane o un suo tozzetto cade in terra deve essere baciato e mangiato subito poiché si tratta del corpo di nostro Signore.

Si mette un pezzo di pane nella culla del nascituro sotto il guanciale o all’interno della camiciola a contatto con la pelle per allontanare il malocchio e per lo stesso motivo le donne lo mettevano nel reggiseno.

Il rito del pane inizia a mezzanotte con una preghiera. Per i pani rituali si utilizzano tre varietà di grano: trigu biancale, trigu sardu e il cosiddetto trigu siciliano. Sia la madrige ovvero il lievito madre che l’impasto si segnano con una croce per aprirli alla lievitazione e alla rinascita e resurrezione che porta a nuova vita.

Il pane è espressione di vita comunitaria e sociale poiché si riuniscono molte donne per confezionarlo e le bambine diventano donne intagliando il pane con le donne della propria famiglia.

Durante questo momento di festa si parla di tante cose, si ride e si racconta il passato.

Il pane viene scolpito con forbici dalla punta diritta, rotelle, coltellini affilati e spesso vengono usati dei timbri per la sua decorazione. Questi timbri possono risalire al periodo cristiano e dunque raffigurare, santi, la Madonna, croci e quant’altro oppure essere ancora più antichi e avere le decorazioni che hanno le pintaderas ritrovate durante gli scavi a Barumini, Villanovaforru, Torralba, Orroli etc etc.

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La sacralità del pane ha fatto in modo che anche la natura del forno venisse mistificata.

Il forno, presente soltanto nelle case più abbienti, con la sua forma circolare e il suo interno di mattoni refrattari diviene quasi un oggetto sacro che però può essere prestato come la macina a pietra in cambio della cosiddetta decima  parte.

Nei paesi vi erano anche le cosiddette panificatrici professioniste che facevano il pane per gli abitanti del paese e che così presero l’abitudine di firmarlo,  per contraddistinguerlo, con proprie fogge e propri timbri.

La sala del forno era un luogo puro che non doveva essere violato dall’ingresso di estranei durante la panificazione.

Per mantenere il malocchio lontano dal pane venivano posti tre granelli di sale grosso sulla soglia e se malauguratamente qualche donna estranea varcava la porta durante il rito della panificazione le veniva imposto di toccare il pane e pronunciare formule magiche e preghiere che terminavano con la formula:” che Dio vi aiuti per la buona riuscita del pane”.

Le panificatrici rispondevano in coro: “ Che Dio lo voglia e le regalavano un pane”

Se il pane stentava a lievitare venivano chiamate donne anziane depositarie di antiche formule e riti magici per togliere il malocchio.

La sacralità del forno trovava le sue radici in un’antica usanza pagana che vedeva Vesta come dea del forno.

A lei venivano presentati i malati per essere guariti ponendoli davanti al forno accesso mentre i bambini venivano avvolti in panni caldi che precedentemente avevano avvolto il pane appena sfornato.

La forma e il colore del pane davano, inoltre, oracoli sul futuro raccolto.

Per quanto riguarda ,invece, il pane pasquale il simbolismo è in gran parte un simbolismo di derivazione Cristiana a parte qualche caso in cui si ravvisano elementi della panificazione precedente.

Questo è proprio il caso del pane pasquale più conosciuto ovvero  “Su coccoi con l’ou” ovvero il tipico pane di pasqua confezionato con l’uovo.

Questo è davvero il pane più conosciuto e uno dei pochi ancora in uso ma a dire il vero l’antica usanza prescriveva che dall’inizio della quaresima fino a pasqua si preparassero pani rituali differenti in cui il tema era la passione, morte e risurrezione di Gesù.

Avremo così pani rituali quaresimali, pani rituali della settimana Santa  e pani che andranno ad imbandire la sola tavola del giorno di Pasqua.

La tradizione cattolica, infatti,  suddivide in settimane un periodo di quaranta giorni che precede il giorno di Pasqua.

Questo tempo nella nostra tradizione inizia con il mercoledì delle ceneri e si conclude con il giovedì Santo.

Per ogni settimana di quaresima in Sardegna veniva, dunque, preparato un pane.

Così, ad esempio, a Ghilarza vi erano nell’ordine:

-la settimana del cardo spinoso

-la settimana della scala

-la settimana della croce

-la settimana di Lazzaro

-la settimana del pesce

-la settimana della palma

Molti pani venivano riprodotti in forma ridotta per i bambini per insegnare loro i tempi religiosi e gli avvenimenti della morte e risurrezione di Gesù Cristo.

Nella prima settimana di quaresima nel marghine veniva confezionata “sa corona e caresima” una ghirlanda o un ferro di cavallo con sette rigonfiamenti (detti melas) e col passare delle settimane diminuiva il numero dei rigonfiamenti fino ad un solo rigonfiamento la domenica di Pasqua.

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In barbagia e nel campidano si preparava, invece, “sa pippia e caresima”.

Questa bambolina era formata da due triangoli sovrapposti con sopra un capo tondo e sette piedi rappresentanti le settimane di quaresima.

Era come un calendario e veniva appesa di fianco al focolare e per ogni settimana trascorsa le si bruciava una gambetta.

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A Oristano e Ghilarza veniva invece preparato il pane del cardo ovvero: “ su pani e Ureu”.

Sette bastoncini di pasta si intrecciavano a formare un nodo e i sette bastoncini rappresentavano i sette steli del cardo spinoso e le sette settimane di quaresima.

Nella seconda settimana abbiamo S’iscala ovvero la scala diffusa in molte zone diverse della Sardegna.

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Una scaletta di pane da tre a quattro pioli che rappresentava la salita sulla croce.

Nella terza settimana abbiamo “Sa rughe” ovvero la croce veniva dunque preparata un pane a forma di croce latina e veniva segnata con un coltellino affilato con un incisione a croce oppure decorata con fiori e uccellini.

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Abbiamo poi la quarta settimana cosiddetta di Lazzaro con “ su pani e Lazzaru” che ha origine ad Abbasanta e in tutto l’oristanese.

È un pane di forma antropomorfa rappresentante Lazzaro avvolto in lunghe bende e a volte decorato con chicchi di grano che ne simulano lo stato di decomposizione.

Il pane rappresenta il potere di Gesù sulla morte.

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Poi vi è la  quinta settimana ovvero la  settimana del pesce. Veniva preparato un pane a forma di pesce destinato alle offerte per i poveri.

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Il simbolismo è chiaro essendo da sempre il pesce il simbolo delle prime comunità cristiane riunite in  nascondimento e preghiera.

Si poneva il simbolo del pesce per indicare ai primi cristiani dove riunirsi poiché l’acronimo della parola ikthys ovvero pesce tradotto in italiano significa : “Gesù Cristo Figlio di Dio Salvatore”.

Il pane ricorda il sacrificio di Cristo per salvare l’umanità dal proprio peccato.

Poi vi è la settimana delle palme.

Per la Domenica delle palme abbiamo: “Sas rughittas” e “s’omine”.

Sas rughittas ovvero le crocette sono un accompagnamento per i tipici simboli benedetti della domenica delle palme ovvero: la palma intrecciata e il rametto d’ulivo. Le foglie vi si infilavano all’interno e le crocette venivano appese agli stipiti delle porte e alle finestre per benedire l’abitazione. Qui rimanevano appese per tutto l’anno fino all’anno seguente in cui venivano bruciate e sostituite. S’Omine rappresentava Gesù Cristo e veniva utilizzato allo stesso modo delle crocette, ma all’interno dell’ovile, adornandolo con foglie di ulivo e palme intrecciate.

Per il giovedì Santo abbiamo invece: su pane e’apustolos,  su pane e sas virghines, su pane e su lavabu.

Su pane e’ apustolos è un pane a forma di corona molto grande intitolato agli apostoli.

Era preparato dalle madri  di figli molto malati la notte del mercoledì per essere portato in offerta la mattina seguente molto presto a tutte le case del vicinato visibili dalla casa della madre panificatrice.

Il voto durava tredici anni.

Questo pane non poteva essere mai rifiutato nemmeno in caso di faide familiari perché sarebbe stato un atto sacrilego.

Un altro pane del giovedì santo era“Su pane e Sas Virghines”ovvero un pane a forma rotonda, che ricorda vagamente una spianata, intagliato lungo i lati e timbrato con pintaderas a motivo floreale.

Doveva essere distribuito a 12 vergini con l’augurio di un felice matrimonio.

Nel marghine, poi, le confraternite femminili preparavano  con il grano della questua“ su pane e su lavabu” un pane di varie forme come trecce, rombi e corone che veniva portato in chiesa e offerto dopo la lavanda dei piedi ai poveri della comunità insieme ad arance e viole.

Le arance , infatti, simboleggiavano l’abbondanza e le viole contrizione e dolore per la morte di Cristo.

Sempre il giovedì santo e sempre per le famiglie bisognose veniva preparato “ su pane e sas animas de sa giogia Santa in memoria dei propri defunti.

In questa settimana poi venivano confezionati pani in forma di chiodi della croce e di corone di spine.

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Sul tavolo pasquale, invece, troveremo:

  • Sa Pertusita e’ pasca
  • Sa capude e pasca
  • Sos puzzones de mele
  • Sa simula pintara e pasca
  • Su coccoi e su pidreru
  • Su cogone con mendula

 

Sa perusita e’ pasca è un pane rotondo decorato con i simboli della passione mentre sa capude ha una forma allungata vagamente antropomorfa decorata allo stesso modo. In tempi precristiani si preparava a capodanno caput anni che veniva celebrato in settembre da qui il nome capude e anche dal fatto che il pane prendeva la forma dell’uomo al quale veniva regalato e quello del capo famiglia veniva spezzato sulla testa del proprio figlio maschio più piccolo come augurio.

Sos puzzones de mele non è esattamente un pane ma è un dolce composto dagli stessi ingredienti dei coricheddos nuoresi ma a forma di colomba.

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Sa simula e pasca è un pane pintau  con varie forme:ghirlanda, ferro di cavallo, fiore, volatile etc etc ornato con fiori e colombelle.

Su coccoi e su pidreru erano , invece, pani a forma  di ghirlanda o ferro di cavallo o mezzaluna  con vari rigonfiamenti sui quali sono disposte decorazioni a tema pasquale.

Era donato ai bambini che accompagnavano il sacerdote per la benedizione della casa al rintocco della campana delle ore 14.00.

Su cogone con mendula è una spianata, una ghirlanda o una treccia decorata con mandorle e destinata al tavolo di pasqua o regalata a parenti e amici.

Il  occasione del giorno di Pasqua detta “ Pasca Manna”, inoltre, verranno preparati per i bambini su coccoi con l’ou e i “coccoeddu con mindula” per i bambini nelle famiglie meno abbienti. Vi erano, inoltre varianti più fantasiose come la borsetta con l’uovo, il piccione con l’uovo, la bambolina con l’uovo e altri pani cosiddetti giocattolo.

Per gli adulti si preparavano, invece, sa cogone cun mendula, su pane pintau e pasca decorato con uova, mandorle o noci.

Il pane pasquale era sempre contraddistinto dal suo candore e le uova vi simboleggiavano la vita, l’abbondanza  e la morte e resurrezione di Cristo.

L’uovo che sembra materia senza vita racchiude al proprio interno la vita pulsante, rappresenta dunque  in se stesso una piccola espressione di risurrezione come il  muto sepolcro per Cristo risorto.

L’uovo in realtà prima di essere un simbolo Cristiano è stato simbolo pagano poiché in alcune credenze del passato l’uovo era l’unione di cielo e terra e per gli egizi era unione dei quattro elementi : acqua, aria, terra e fuoco.

Nel medioevo era  simbolo di rinascita della natura in periodo primaverile.

 

Carla Puddu

Maestro in Enogastronomia e Ospitalità

 

 

 

 

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Coricheddos Nuoresi

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Una frase di Lèvi Strauss recita: “La cucina di una società è un linguaggio nel quale essa traduce inconsciamente la sua struttura”.

Nessuna frase racchiude meglio di questa il valore intrinseco contenuto in un dolce artigianale sardo.

Il Dolce tradizionale come anche la cucina in generale, è un fortissimo elemento identitario per un popolo perché viene elaborato a partire dalle materie prime presenti su un determinato territorio, in un dato momento storico ed  è espressione del suo sapere , del suo progresso nell’utilizzo dell’utensileria da cucina, dei suoi gusti, della situazione di ricchezza e povertà e relativa ostentazione e dell’interiorità e religiosità dei soggetti che abitano quel territorio. I dolci della tradizione sarda cosi come i pani rituali sono, infatti, il prodotto artigianale che meglio sostanzia l’identità isolana poiché sono frutto di lavoro e ritualità, di significato simbolico e religiosità interiore, di ricchezza e carestia.

Un singolo dolce guardato da questa prospettiva risulta così semantizzato di un proprio bagaglio storico e culturale datogli dal sostrato territoriale.

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I Coros detti anche coricheddos, ovvero, cuoricini in lingua sarda sono dei dolci tradizionali  del nuorese che venivano e vengono ancora oggi preparati in occasione dei matrimoni.

Sono caratterizzati da una pasta a base di semola, acqua e strutto e poco zucchero e da un interno a base di miele, buccia d’arancia, mandorle e zafferano.

Nove cuori e nove pani rituali venivano regati alle spose nuoresi  dalla suocera, dalla madre o dalla madrina in occasione delle nozze. I cuori divenivano  12 o 15 nel caso di matrimonio fra persone particolarmente abbienti. In almeno uno dei cuori venivano rappresentati i gioielli donati alla sposa dal futuro marito.

Questi doni venivano confezionati in un cesto cosparso di grano e fiori.

Il grano, infatti, è da considerarsi da sempre secondo la tradizione come un augurio di prosperità.

In Sardegna, infatti, il miglior augurio che si possa fare ad una persona è: “ Saludi e Trigu” ovvero Salute e grano.

Gli stessi ingredienti vengono usati anche per confezionare i cosiddetti durchicheddos de mele ma la forma di questi ultimi è differente poiché possono rappresentare uccellini, croci, grappoli d’uva, colombe, pesciolini e altri soggetti.

Questi dolcini di miele venivano offerti al termine del banchetto nuziale e confezionati in numero di 12 all’interno di piccoli cestini come bomboniere e accompagnati da una piccola tortina di forma circolare detta: turtichedda de mele.

Anche la turta de s’isposa mantiene identici ingredienti e medesima ricetta ma in forma di una grande torta circolare spesso abbellita di decorazioni di zucchero.

Questa torta veniva donata alla sposa da un parente di primo grado in segno di affetto.

Ingredienti per trenta cuoricini:

Per l’involucro di pasta:

350 grammi di granito di grano tenero 00

40 grammi di strutto

Un cucchiaino di zucchero a velo

Acqua q.b.

Per il ripieno:

300 grammi di miele sardo

300 grammi di mandorle dolci

Un’ arancia grattugiata

Tre pistilli di zafferano

Procedimento:

 Far sbollentare le mandorle  privandole della buccia e tritarle finemente.

Sciogliere il miele in una pentola e aggiungervi i pistilli di zafferano polverizzati, le mandorle e la scorza d’arancia essiccata e macinata.

Far cuocere a fuoco molto basso, mescolando continuamente fin quando non si formerà un impasto che si staccherà dai bordi della pentola.

Stendere il composto su un piano oleato o su una spianatoia o più semplicemente sulla carta da forno e far raffreddare come si farebbe con una polenta.

Nel frattempo preparare l’impasto di granito di grano tenero 00, acqua, strutto e poco zucchero e lasciarlo riposare per un’ora coperto da un canovaccio.

Quando il ripieno si sarà raffreddato, ricavare dei cuoricini utilizzando dei taglia biscotti o semplicemente modellandoli con le mani.

Stendere sottilmente con il mattarello l’impasto a base di granito di grano tenero, acqua, strutto e poco zucchero e mettervi sopra il cuoricino di ripieno.

Ritagliare il cuoricino di pasta tutto intorno al cuoricino di ripieno (deve essere più grande del ripieno) e ricoprire con un’altra sfoglia di impasto a forma di cuoricino della stessa grandezza della precedente.

Far aderire bene i bordi e intagliare la superficie del cuore in modo che il ripieno divenga visibile.

Decorare con fantasia.

Infornare su carta da forno a 140 gradi facendo attenzione che la superficie non si colori.

 

 

 

 

 

 

Tour emozionale: Pane, grano e spiritualità in Sardegna.

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Un’antica leggenda narra che in un tempo assai remoto la Sardegna era abitata da piccole fate le “janas”. Le “janas” erano creature magiche e misteriose detentrici di scienza e sapere la cui dimora consisteva in una grotticella artificiale di pietra. Un giorno queste creature decisero di sviare i passi di una giovane donna dalla strada battuta e di condurla così presso le loro grotticelle. Il loro intento era amichevole: volevano insegnarle i segreti della panificazione di un pane magico: il pane carasau e donarle una ”matrice miracolosa” che nascosta nella farina  e mischiata con dell’acqua  avrebbe  aumentato il volume dell’impasto. Così  nel segreto della grotticella, nell’utero della terra, da elementi magici come acqua purissima di sorgente, terra (grano dorato), aria (incorporata con il lievito) e fuoco sarebbe nato l’ alimento perfetto: il Pane. La donna apprese la ritualità, si sentì responsabile depositaria del segreto delle fate e custode della preziosa matrice che tutto moltiplica e tutto trasforma. Le fate le dissero che quel lievito madre avrebbe dovuto essere tramandato di generazione in generazione e “rinnovato” ad ogni impasto. Così da allora le donne depositarie di questo segreto, della matrice e del rito rinnovano giorno dopo giorno quest’arte panificatoria. La leggenda non sarà mai niente di più che una fiaba ciò che risponde a verità è invece la dimensione magico-religiosa che riveste in Sardegna un alimento come il pane che non è mai stato solo un semplice alimento. Il pane, infatti, è stato semantizzato di contenuti culturali. È rito, mito, leggenda! È incrocio di sacro e profano! In una Sardegna che ha restituito resti di epoche precedenti legati al pane come: pintaderas, contenitori per la conservazione dei cereali, bronzetti raffiguranti offerenti di pane e che poi è divenuta granaio di Roma e d’Italia  il pane è sempre stato parte di un sistema più ampio.

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In periodo cristiano è diventato corpo di Cristo con la transustanziazione ed è divenuto pane pasquale, pane di Lazzaro, pane delle comunioni, pane del santo, pane degli sposi, pane del battesimo, pane del patrono. Lo scorrere dell’anno cristiano era scandito e scolpito nella pasta del pane. Oggi vi propongo un viaggio spirituale, un viaggio verso il centro e non verso l’altrove, un pellegrinaggio verso il cuore della religiosità isolana e del tempo e dello spazio racchiusi in un pane. Il rito del pane inizia a mezzanotte con una preghiera. L’impasto si segna con una croce per aprirlo alla lievitazione e alla rinascita e resurrezione che porta a nuova vita. Il pane é patrimonio di famiglia e delle genti. Segna miseria e nobiltà. Se bianco è consumo ostentativo di una posizione sociale agiata se nero o finanche di ghianda rappresenta povertà e molto spesso tutto ciò che la famiglia possiede.

Il nostro viaggio inizia in un museo del pane come centro tematico e culturale che dischiude i propri saperi e spiega le valenze culturali di questo scrigno di significati. All’interno del laboratorio dello stesso museo, poi, si metteranno le mani in pasta e si assaporerà la sensazione tattile e in genere sensoriale legata al preparare l’impasto e al modellarlo fra le mani.

Dopo essersi dedicati all’acquisto dei pani rituali e dei libri nel bookshop del museo, si può pranzare al sacco con pani, salumi, formaggi locali e dolci sardi oppure recarsi all’Agriturismo San Giuseppe (menù da 27 euro: antipasti, 2 primi, 2 secondi, dolci sardi, caffè e amari).

Il percorso terminerà nella grotticella in cui tutto ebbe inizio in un continuo rimando fra passato e presente, fra materiale e immateriale fra spirito e “istinto primario del nutrirsi”. Si potranno così visitare le domus de janas di Serbine situate nelle campagne del paese.

Sempre a Borore si potranno visitare due nuraghi a tholos uno dei quali costituisce anche la torre più antica della Sardegna. La torre sud , infatti, è stata datata al  2000 a.C. circa mentre la  torre Nord fu edificata probabilmente intorno al XV secolo a.C. Tutt’intorno immersi nella vegetazione vi sono i resti del villaggio circostante.

Borore ospita anche otto tombe dei giganti  fra le quali spicca quella di Imbertighe riprodotta in numerosi libri e riviste di archeologia.

Informazioni:

  • Museo del pane rituale

indirizzo: viale Baccarini, 08016 Borore (NU)
tel. 0785 879003 – 346.2104437 –
Gestione: Comune di Borore
Biglietto: 2,50 euro
visita guidata 1 euro
laboratorio didattico 5 euro
Orari: Lunedi/Sabato ore 8.00/13.00
Pomeriggi e Festivi su appuntamento
email: info@museodelpanerituale.it

  • Agriturismo San Giuseppe menù da circa 27 euro: antipasti,2 primi,2 secondi,dolci sardi, mirto, limoncello e caffè

località Imbertighe | 08016 BORORE (NU)
Tel. Cell: 338 6637198

  • pasticceria I dolci di nonna Quirica  per l’acquisto di dolci e pani tipici. situata a Borore  in via Roma al civico 30. Tel. 0785 86104

Dolci tipici di Borore sono : pirichitosgiorminos,tumballinastziliccassospirosamarettospitifurros .

Vino: Borore, recentemente è stato riscoperto come terra natìa del vino (Gli scavi effettuati nel 2002, nel sito di “duos nuraghes” hanno, portato in superficie  vinaccioli  antichissimi, carbonizzati dal tempo, databili intorno al 1200 avanti Cristo. Una vera e propria scoperta nella storia enologica che situava la nascita della pratica dell’addomesticazione della vite nell’area caucasica. Ciò, inoltre, ha permesso di identificare il cannonau come autoctono e non frutto di importazione spagnola). In questo piccolo borgo, Dunque, pane e vino ovvero corpo e sangue di Cristo si incontrano.Questo è assai curioso  perché Borore risulterebbe un posto eletto da Dio anche in base alle teorie contenute in un libro scritto da Juan Pedro Quessa Cappay, rettore della parrocchia di Borore e Noragigume, che indica il paesino di  Borore come il primo centro abitato della Sardegna dopo il diluvio universale.

                                                                           Saludi e trigu!

Strade dei Vini e dei Sapori

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Premessa

                Ricordo ancora la prima volta che vidi un cartello con su scritto:” Strade del Vino”. Mi trovavo a Rimini perché mio marito, ai tempi il mio fidanzato, aveva trovato lavoro in quella città e così appena laureata e approfittando dell’estate ero partita per andarlo a trovare e per vedere se in quella città vi erano possibilità lavorative anche per me. Un giorno mentre mi recavo dalla zona marina al centro, attraversando un parco alberato per vincere la calura della giornata, all’altezza dell’arco d’Augusto vidi un cartello: Strada dei Vini e dei Sapori dei Colli di Rimini. Che nome bellissimo ed evocativo pensai ma non avevo la minima idea di cosa potesse trattarsi….e mai e dico mai avrei pensato che un giorno avrei potuto progettare, io stessa, l’integrazione di un loro distretto! Poi il resto è Storia… ho seguito le mie inclinazioni, ho fatto un Master all’alma Mater di Bologna in Enogastronomia e Ospitalità e così eccomi a progettare sistemi turistici integrati! Il fascino delle Strade del Vino mi è entrato nel Sangue ed è stato come una febbre .

                Un po’ ho goduto della Strada da turista facendo esperienza dei colori, dei profumi, dei sapori, dell’ospitalità della gente e dell’autenticità dell’entroterra Riminese e un po’ ho lavorato dietro le quinte con tanto studio e una buona dose di creatività per creare la mia estensione al percorso e la mia proposta turistica di Itinerario. Oggi quei borghi fortificati, i tanti pascoli sulle verdi colline Riminesi, gli antichi castelli spesso ammantati di significati esoterici mi sono entrati nel cuore così come i Sapori, i profumi e le persone che ho conosciuto.

                Innamorata ormai delle Strade dei Vini e dell’ autenticità della loro proposta turistica ho deciso di scrivere qualcosa sul tema.Ovviamente non un testo esaustivo e tecnico, bensì qualcosa di più rispetto a ciò che a mia volta avevo trovato in rete quando incuriosita di fronte a quel cartello mi chiesi cosa fossero!

Le Strade Dei Vini

Come ho accennato in premessa, le Strade dei Vini costituiscono un itinerario esperienziale caratterizzato da un alto grado di autenticità attraverso il quale scoprire un territorio nella sua essenza più intima. Non vi sono più luoghi che devono essere visti, ad una determinata ora, mangiando in determinati ristoranti e dormendo in una determinata struttura. Nessun pacchetto precostituito! Il viaggiatore è libero, borsa in spalla, di percorrere queste strade come crede e di soffermarsi solo sui luoghi di interesse personale, ad esempio, visitare una cantina e una rocca ma non un caseificio se non ha interesse! Non ha un programma di attività da intendere come compiti da svolgere poichè l’intero territorio viene “messo a sistema” in quanto tutto potenzialmente attrattivo. I sapori che si incontrano sono quelli reali, che parlano del territorio, della sua storia, delle sue genti, delle sue tradizioni. In tutto questo il Vino fa la parte del leone! Il vino con la sua etichetta gira il mondo portando con se le sue origini e il suo rapporto con il terroir. Fa conoscere la sua terra nel suo errare verso altre terre e riesce a diventare così un potentissimo attrattore turistico. Visitare le vigne e le cantine, i caseifici, i pastifici, i biscottifici, etc etc e vedere con i propri occhi, assaggiare, sentire la storia di quei prodotti, a mio parere, rende l’esperienza abbastanza autentica. Anche la Strada come tutte le offerte orientate al turista offre al turista una propria rappresentazione predisposta della realtà ma il fatto che si metta a sistema il reale fa si che l’esperienza risulti in parte priva di quella patina rappresentata dalla logica del viaggio organizzato che ricopre e impacchetta i nostri luoghi mutandone il senso e stravolgendone l’essenza.

La strada trova sua precisa definizione nella Legge 268/1999 che riconosce i percorsi di strade del vino già istituiti previa verifica dei requisiti che questa stessa legge dispone, ne da una definizione e illustra i criteri per la costituzione di nuove Strade.

In questa legge le Strade dei Vini vengono descritte come: «percorsi segnalati e pubblicizzati con appositi cartelli, lungo i quali insistono valori naturali, culturali, ambientali, vigneti e cantine di aziende agricole singole o associate aperte al pubblico».

Vi leggiamo, inoltre, che le Strade dei Vini «costituiscono strumento attraverso il quale i territori vinicoli e le relative produzioni possono essere divulgati, commercializzati e fruiti in forma di offerta turistica» e viene aggiunta la possibilità di progettare non solo Strade dei Vini ma anche strade miste comprendenti vini e Sapori.

Dunque il termine Strada dei vini ha due Nature: da una parte ci si riferisce ad un percorso segnalato da cartelli lungo il quale il turista può scoprire un territorio e dall’altra vi è il famoso retroscena, che ad esempio, può assumere la forma del Consorzio in cui vi è un’insieme di piccole realtà produttivo- ricettive che “fanno rete” per valorizzare se stesse tramite il territorio e viceversa e raggiungere tutti insieme migliori risultati, in termini di pubblicità, immagine e ovviamente; perchè sarebbe ipocrita non dirlo, profitti. Anche se personalmente ho riscontrato talmente tanta passione nei consorziati delle strade che penso che comunque ci sia in loro qualcosa che và al di là: passione, amore per il territorio, inclinazione naturale all’ospitalità! Del resto il fil rouge di un viaggio intrapreso “sulla strada” è il racconto. Racconto che incuriosisce, che spinge a scoprire il nuovo e il diverso e apre mente e cuore! Dunque, anche le piccole realtà ricettivo- produttive devono essere “accompagnate nella scoperta di questa nuova sensibilità”, del loro ruolo “culturale”, del valore dell’ospitalità per un territorio. Sempre in questa direzione, i produttori e gli agricoltori devono essere consapevoli di far parte del sistema turismo e si devono sentire responsabili dell’ importante ruolo che rivestono nel rappresentare la propria terra facendo scelte avvedute puntando sempre alla qualità. Qualità che passa anche attraverso il rapporto diretto fra produttore e consumatore e la tracciabilità del prodotto e trasparenza della filiera produttiva.

Questi soggetti devono lavorare in rete sulla base di un comune intento pensando in termini di collaborazione piuttosto che di concorrenza.

La mission, dunque, delle strade del Vino è proprio la valorizzazione territoriale e la sua natura è quella di un “distretto turistico integrato”. Prodotti e territorio vengono venduti insieme traendo reciprocamente contenuti valoriali quali storia, identità, autenticità e tanto altro ancora!

Mercato del Vino

Il vino, prodotto sin dai tempi più antichi, carico di contenuti  intrinseci ed estrinseci  oggi è un vero e proprio prodotto commerciale internazionale.  Senza nemmeno bisogno di viaggiare ma in semplicità dalla poltrona di casa nostra ci è spesso capitato di vedere, ad esempio, un film americano e di  rendersi conto di come il vino sia entrato nelle case di molti in tutto il mondo! La  scena più ricorrente  è quella in cui  la protagonista del film o la semplice ” prossima vittima” torna a casa e completamente a digiuno dopo ore ed ore di lavoro si toglie il tacco 12 e si versa un generosissimo calice di vino rosso! O ancora ci è capitato di seguire in un film le vicende di qualche personaggio che decide di lasciare il proprio lavoro per dedicarsi alla vitivinicoltura in California o in un qualsiasi altro posto! Il Vino, dunque,ha varcato le frontiere sia per quanto riguarda il consumo sia oramai anche per quanto concerne la produzione. Sono finiti i tempi in cui il vecchio mondo del Vino  costituito dai paesi facenti parte dell’Unione Europea,non aveva competitors nel resto del mondo. Affianco al “vecchio mondo del vino” abbiamo oggi un nuovo mondo del vino composto da Stati Uniti, Argentina, Australia, Nuova Zelanda, Cile e sud Africa. In Europa  abbiamo ancora grandi numeri per quanto concerne le esportazioni  da parte di Italia, Francia e Spagna anche se a dire il vero  le esportazioni  nell’ultimo periodo stanno crescendo, in maniere preoccupante, per noi, anche nei paesi del nuovo mondo del  Vino. Per quanto concerne invece il dato relativo a chi acquista il nostro e l’altrui vino vediamo in testa l’Inghilterra seguita da Germania e Stati Uniti. La Francia ,invece, acquista solo vini da taglio per la propria produzione. In realtà dividere il mercato del Vino in vecchio e nuovo mondo del Vino è  ormai piuttosto anacronistico. Oggi, infatti, parte del mondo del vino è in mano a multinazionali delle bevande alcooliche o a imprese sostenute finanziariamente da capitali esterni al settore. Queste grandi imprese hanno stili manageriali assai diversi da quelli dei piccoli vitivinicoltori e diverse strategie di marketing.Tutto ciò complica molto il panorama del mercato del Vino. Basti pensare a cosa succederebbe se, ad esempio,  una multinazionale delle bevande con i suoi potenti mezzi di marketing decidesse di puntare sul prodotto birra piuttosto che sul vino e investire molti capitali nella promozione di questo prodotto a discapito del Vino.Quali le ricadute per l’intero settore? Quanto le scelte di questi “colossi”condizionerebbero, dunque, l’intero settore pregiudicando o aiutando gli interessi dei piccoli produttori? Da quanto detto si evince che oggi il Mercato del Vino non è più un mercato agricolo ma un segmento del mercato alimentare  assai competitivo e professionale. Queste grandi multinazionali potranno certamente puntare su economie di scala e offrire prodotti a basso costo rispetto a quelli dei piccoli produttori ma questi ultimi potranno, ad ogni modo, distinguersi  puntando sulla qualità. Le grandi imprese avranno, infatti, certamente successo sul segmento di mercato relativo al basic e popular premium ma i piccoli produttori  potranno e dovranno puntare sui propri plus dati  dalla qualità,dal rapporto con le proprie radici, col proprio territorio.   Potranno così trionfare sul mercato locale tramite la fiducia che lega produttore e consumatore. Questa relazione diretta potrà  svilupparsi anche nel settore dell’Enoturismo  tramite la possibilità di visitare le cantine o tramite la creazione e partecipazione ad eventi.

Il Vino: Contenuto culturale

Il vino, questa bevanda così seduttiva, ricca di storia e di contenuti culturali. Bottiglie misteriose con ammiccanti etichette che sorridono dagli scaffali delle enoteche e invitano silenziosamente a scoprirne i segreti stappandole. Argomento intorno al quale si possono sviluppare tantissime discussioni ad alto contenuto culturale. Sostanza di cui piace parlare, complemento inseparabile delle cene e ricorrenze importanti. Si stappano bottiglie per festeggiare nascite, compleanni, lauree, matrimoni, anniversari,cene galanti, cene di lavoro.

Vino che crea convivialità, sintonia, intimità ma che paradossalmente  nella sua funzione di status symbol esalta le differenze discriminando  e dividendo. Si stappa un’etichetta importante per dare lustro a se stessi e per onorare i propri invitati di riguardo. Diviene così elemento imprescindibile per ” fare bella figura” Con la stessa funzione un’ etichetta importante si  inserisce nelle carte dei vini di alcuni  ristoranti per trasferirgli prestigio.

Vino carico di valori estrinseci e contenuti culturali  con propri riti e proprio vocabolario. Vi è differenza, infatti fra il comune bere e il degustare vino. Si degusta seguendo rituali di degustazione andando oltre la piacevolezza del gesto senza fermarsi alla funzione dissetante per scoprire come investigatori nel bicchiere quanto più possibile sulla storia di quel vino. Scoprire  il vitigno, le proporzioni nei blend, il terroir, l’invecchiamento e quant’altro. La degustazione, infatti,  inizia nella mente, ancor prima di aver portato il bicchiere alle labbra. La lunga storia del vino rappresenta, inoltre, ulteriore motivo di fascino di questa bevanda.

Si dice che sia nato fra il Mar Nero e il Mar Caspio, in territori caucasici ed è stato datato al 7500 A.C.Una curiosità è rappresentata dal fatto che  recentemente, proprio qui in Sardegna, nelle vicinanze di Cabras, vicino ad un un nuraghe  sembra siano stati ritrovati dei semi di vernaccia e malvasia risalenti a circa tremila anni fa  e pare che la prova del carbonio 14 effettuata dal centro di osservazione biodiversità dell’università di Cagliari  abbia confermato la datazione. Ad ogni modo pare che il Vino anticamente venisse prodotto all’interno di grandi contenitori di terracotta interrati chiamati “knevri” e veniva utilizzato come  disinfettante per le acque per supplire alla penuria di acque potabili in determinate zone. Si procedeva miscelando acqua e vino , in funzione di disinfettante e da questa pratica deriva il termine ” miscere”.

Ma il vino  in  verità è sempre stato molto di più che un prodotto di disinfezione poichè è ” nettare degli Dei”. La stessa coltura della vitis vinifera rappresentava un rituale intriso di significati religiosi legati al ciclico alternarsi delle stagioni e alla ciclicità della vita. Inebriarsi di vino per mettersi in comunicazione con il Divino era una pratica condivisa.

Presso gli antichi Egizi, ad esempio, bere vino equivaleva a nutrirsi della divinità e più tardi con il cristianesimo questo Vino si trasformerà in Sangue di Dio offerto in Sacrificio per la salvezza umana.

Abbiamo, dunque visto che il Vino prima ancora di essere buono o cattivo ha un contenuto estrinseco ovvero  una  sua funzione comunicativa. Unico requisito richiesto perchè questo vino abbia questo contenuto è che si tratti del frutto della vite:  ex gemine vitis.

Oggi queste caratteristiche estrinseche del prodotto vino vengono utilizzate per  farne il cosiddetto  prodotto civetta al supermercato o per costruire itinerari enogastronomici o ancora per far conoscere la regione di produzione del vino nel mondo. Una bottiglia,infatti, viaggia portando nel suo contenuto la storia del suo terroir, storia di luoghi e di genti e di saperi antichi che l’hanno prodotto e viaggia con le sue etichette. Etichetta e controetichetta hanno il potere di portare in viaggio un luogo, una regione, uno stato. Secondo Lèvi Strauss : “la cucina di una società è un linguaggio nel quale essa traduce inconsciamente la sua struttura”. Questo concetto può essere applicato per analogia anche al prodotto vino. Le caratteristiche dei vini, infatti, oltre che dell’influenza del vitigno e del terroir risentono della cultura gastronomica di una società poichè il vino da sempre è stato abbinato alle abitudini alimentari della società di riferimento. A questo proposito può essere utile un esempio esplicativo che contrappone le diverse abitudini alimentari dei soggetti stanziati in Romagna e di coloro i quali erano stanziati in Emilia. In Emilia, infatti, l’alimentazione era un’alimentazione ricca di grassi ( insaccati e cucina a base di lardo) poichè vi era un’intenso allevamento (l’editto di Rotari del 643 la descrive come terra dedita specialmente all’allevamento tanto che era consentito agli animali pascolare addirittura nei terreni coltivati) mentre, in Romagna ogni abitante aveva il proprio orto e vi era un’alimentazione povera che sostituiva i legumi alla carne. Il risultato è un diverso modo di intendere e consumare il vino.La cucina ricca di grassi dell’Emilia rendeva necessario prediligere vini frizzanti e acidi per ” sgrassare” mentre in Romagna si consumavano vini prevalentemente fermi quali Sangiovese, Trebbiano e Albana.

Turismo enogastronomico: profilo soggettivo

Per poter affrontare in modo serio e costruttivo un discorso sul settore turistico legato all’enogastronomia è necessario porsi la domanda di chi sia il destinatario finale di questi servizi e del perchè quest’ultimo possa essere attratto da una proposta turistica di questo genere.

Bisogna , dunque analizzare a 360 gradi ciò che circonda e influenza l’uomo moderno. Ciò che lo indirizza nella scelta e come il tipo di società che lo circonda influenzi il suo modo di vivere e di conseguenza pensare. Questo è effettivamente un discorso molto ampio da affrontarsi in un blog ma è imprescindibile per chi voglia davvero capire in modo chiaro come costruire un’offerta turistica enogastronomica che sia attrattiva per l’uomo moderno.

Il settore turistico come tanti altri settori economici è stato investito dal fenomeno della crisi che, come sappiamo, ultimamente non solo non risparmia il profilo economico ma nemmeno quello politico e finanziario. A dispetto di tutto ciò un dato curioso è che sta invece crescendo la domanda di turismo enogastronomico. Per questo è importante capire questo fenomeno per costruire progetti turistici adeguati alla domanda.

Internet e i nuovi strumenti di comunicazione hanno contribuito a strutturare un modello di turista maggiormente informato che rifugge pacchetti turistici preconfezionati e necessità sempre più di servizi atti a soddisfare i propri peculiari bisogni. Assistiamo, dunque, ad una netta contapposizione fra il passato con le sue proposte atte a soddisfare un turismo “di massa” e il presente dove troviamo un turista creativo che insegue bisogni e passioni personali che non ha bisogno di rassicuranti pacchetti tutto compreso ma è alla ricerca di autenticità e avventura.

L’uomo moderno è infatti abituato a fluttuare nell’insicurezza sociale data dai contratti a tempo indeterminato, dal disgregamento della famiglia e dall’affievolimento della morale e non è più quell’uomo che lavorava in fabbrica e aveva dei compiti precisi da svolgere ogni giorno e che nonostante cercasse relax e riposo ricadeva inesorabilmente in quel sistema di compiti da svolgere anche in vacanza tramite l’acquisto di pacchetti  tutto compreso da intendersi come liste di ” cose da fare” e di cose che ” devono essere viste” in tempistiche prestabilite. Il consumatore- turista moderno è un soggetto che non riveste più una posizione precisa e determinata nella società data la precarietà dei rapporti di lavoro e di quelli familiari  ma è un soggetto che ogni giorno sceglie come comportarsi e rischia l’insuccesso pagando così le conseguenze di queste scelte.

L’identità oggi deve essere costruita ogni giorno, momento per momento in un tempo puntinista come direbbe Bauman. Questo soggetto parte, dunque, non per svagarsi , per vedere o conoscere ma per autodefinirsi attraverso il tipo di vacanza che sceglie e conduce.

Questo nuovo tipo di turista andrà , dunque, alla scoperta di nuove e diverse attrattive turistiche attraverso percorsi individuali alla ricerca di autenticità e reali peculiarità territoriali. si impone dunque la necessità di mettere a sistema l’intero territorio per accogliere questo nuovo tipo di turista.

L’enoturista è ,dunque, espressione di questo tipo di turismo, è un soggetto che percorre il territorio con l’intento di soddisfare una passione , un interesse personale. Studi di settore hanno tracciato un identikit di questo turista. Si tratterebbe di un soggetto fra i 30 e i 50 anni che ha una buona cultura e per il quale riveste una grande importanta poter svolgere una vacanza autentica sia sotto il profilo geografico che in relazione a quanto consuma in loco. Per lui, o per lei, sono valori  importanti la filiera corta e la sua tracciabilità, il rapporto diretto fra produttore e consumatore, il legame fra il territorio e quanto consuma.

Moderne teorie sociologiche ritengono che non ogni volta che all’interno della nostra società un consumatore acquista qualcosa sta effettuando una scelta responsabile in perfetto equilibrio di utilità qualità e prezzo ma molto spesso si sta autodefinendo tramite il suo acquisto anzi per dirla meglio: tramite la sua scelta d’acquisto. Lo muovono la ricerca del proprio piacere, di divertimento, di identità, di autenticità. Una vacanza sarà tanto più piacevole quanto verrà avvertita come autentica. Questo consumatore oggi tramite i social e la rete internet oggi diventa capace , dunque di indirizzare la proposta turistica e non soggiace più alle scelte effettuate per lui dai tour operetors. si registra , inoltre, anche una svolta etica nelle scelte individuali. Una scelta che preserva l’ambiente, consuma cibo biologico, è attenta al riciclo e al turismo sostenibile. Ecco che il turismo enogastronomico rappresenta la summa di tutto ciò poichè trae autenticità dal territorio, favorisce l’agricoltura anche nei settori del biologico e del biodinamico, è esperienza pura, unisce arte, storia e cultura, fattorie didattiche, visite in cantina, visite ai caseifici ,peculiarità geografiche, clima, abitanti,  consuetudini, profumi, in poche parole offre un’esperienza autentica e completa.

Partendo da questa analisi, dunque, un progetto turistico attrattivo ed attuale dovrà dare al turista degli spunti per una scelta individuale e dovrà comunicare l’intero territorio in quanto nelle peculiarità individuali risulta essere potenzialmente interamente attrattivo. Questa comunicazione non dovrà sostanziarsi in una mera elencazione di ciò che viene offerto bensì dovrà tendere a toccare la sfera emotiva del potenziale turista.